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Torino: le 5 ali destre più forti della storia granata di Davide Martini
La chiamano la solitudine dell’ala destra, ma in realtà c’è chi è ben contento di starsene isolato sulla fascia. Un po’ perché, ed è così fin dalla nascita del calcio, così defilati e lontano dal traffico di centrocampo ci si può anche eclissare per qualche minuto dalla partita, riposarsi o semplicemente far credere al proprio diretto marcatore di essere in una giornata di scarsa vena, per poi scatenarsi appena i compagni ti danno il pallone. Un po’ perché insieme al portiere quello dell’ala vecchio stampo è sempre stato il ruolo più pazzo ed anarcoide del gioco del calcio, quello che, dopo il centravanti, ha acceso ed accende le maggiori fantasie da parte dei tifosi. Qui si sono concentrati talenti ad alto contenuto di eccentricità, dentro e fuori dal campo. D’altronde è o non è stato questo il ruolo di giocatori come George Best o Gigi Meroni, o come Garrincha, per alcuni la miglior ala di sempre, poi morta in povertà? Due esempi, i primi due, parossistici, certo, ma utili per capire che il prototipo dell’ala non è solo quello tutto talento e regolarità di Bruno Conti, ma molto di più. Per fornirne un esempio prendiamo le cinque ali destre più forti della storia del Toro, club che, racchiudendo in sé un alto contenuto di poesia calcistica, ha offerto come pochi altri una vasta letteratura sul genere. Di vari tipi…
5. Romeo Menti
Lui sì che rappresenta l’”Angelo tra le ali”, e non solo per la triste morte trovata contro il muraglione della Basilica di Superga. Certo, il vicentino è appartenuto ad un altro calcio, ma non è capitato spesso nei decenni successivi di assistere alle giocate di un giocatore tanto elegante e corretto, quanto tecnicamente superiore. Fu tra i primi ad approdare a quello che sarebbe diventato il Grande Torino: accadde nell’estate 1941, dopo sei campionati di alto livello tra Vicenza, la squadra della sua città, e Fiorentina (oggi Romeo riposa nel cimitero di Antella, centro in provincia del capoluogo toscano). Il suo destino, inconsciamente, Menti lo visse già nella prima partita della carriera, che coincise con quella dell’inaugurazione dello stadio di Vicenza: lo stesso che ancora oggi porta il suo nome al pari di quello di Castellammare di Stabia, dove Menti giocò per pochi mesi nel 1945, ottenendo però con la squadra locale il titolo di Campione dell’Italia liberata. Al Toro disputò 130 partite suddivise in due momenti: tra il 1941 ed il ’43 poi, dopo due anni di prestito, dal 1946 fino al tragico epilogo. Titolare pressoché inamovibile, Menti visse solo una veloce concorrenza con Franco Ossola, anch’egli giocatore di fascia ma con caratteristiche più offensive rispetto a Romeo: appena il tecnico trovò il modo per farli coesistere, la zona di destra divenne uno dei punti di forza della squadra. Al Toro Menti sviluppò anche uno spiccato senso del gol, e divenne anche il rigorista della squadra. Suo è stato l’ultimo gol nell’epopea dello squadrone, su rigore nella maledetta amichevole contro il Benfica del 3 maggio 1949.
4. Alessio Cerci
Troppo diverso il calcio di oggi, e soprattutto il Toro di oggi da quello dei bei tempi, per immaginare qualunque paragone con le grandi ali del passato. Ma il primo anno e mezzo di Cerci con la maglia del Toro è quantomeno da ricordare sul piano delle giocate che l’esterno romano ha saputo regalare ai tifosi. Il suo futuro sarà con ogni probabilità lontano da Torino, ma dal punto di vista tecnico la distanza dagli altri non è abissale. Meno attaccante rispetto ad altri illustri predecessori, Cerci segna più reti semplicemente perché il calcio è cambiato, nessun difensore gli si attacca più alla maglietta dal primo all’ultimo minuto, attendendolo nella zona di competenza dove Alessio può mettere in evidenza le proprie doti di corsa e tecnica. Carattere da cavallo pazzo, a Torino sembra aver messo la testa a posto grazie ai consigli del mentore Ventura, che lo ha plasmato a Pisa ritrovandolo dopo gli anni bui di Firenze. Nel giro della Nazionale, sogna un Mondiale da protagonista. Per poi giocarsi l’ingresso nel grande calcio.
3. Luigi Meroni
Libri, documentari ed ora anche una fiction televisiva, che dopo un lungo peregrinare verrà trasmessa lunedì 11 novembre in prima serata ed in prima tv su Rai Uno, “La Farfalla Granata”, liberamente ispirata al romanzo di Nando Dalla Chiesa. Non è semplice collocare Gigi Meroni nella storia del Toro, e del calcio italiano, perché il giudizio è inevitabilmente condizionato da ciò che sarebbe potuto essere, ma non è stato per un beffardo scherzo del destino, che se l’è portato via per colpa di un’assurda carambola tra due vetture, in una centralissima via di Torino, nella serata libera che il tecnico Rocco aveva concesso alla squadra dopo la vittoria sulla Sampdoria. Doti tecniche fuori dal comune, amante del dribbling ma non fine a se stesso, assistman irresistibile, Meroni arriva al Toro dal Genoa nell’estate ’64, per 300 milioni di lire: impiega poco tempo per farsi amare dai tifosi, che perdono la testa per il campione e per l’uomo, anticonformista proprio alla vigilia dell’era dell’anticonformismo. Ma il 1968 Meroni lo vivrà tra gli Angeli. Chissà come sarebbe andata se il presidente Pianelli avesse accettato l’offerta della Juventus, che proprio in quel 1967 era disposta a spendere 700 milioni per assicurarsi il giocatore: l’affare saltò sull’onda della rabbia dei tifosi. Alla Juve andò Gigi Simoni. Al Toro rimase un campione presto diventato leggenda.
2. Gianluigi Lentini
La sua storia ricorda per filo e per segno quella di Meroni, ma per fortuna il finale è diverso. Anche Gigi ha rischiato di finire i propri giorni su una strada, ma questa volta solo per propria negligenza: quello schianto nell'agosto '93, a 200 km/h sull’autostrada, e con il “ruotino”, lo ha tenuto in coma per qualche settimana, ma poi il destino gli ha dato un’altra opportunità. Per vivere, più che per giocare. Sfruttata appieno, perché se da quel momento non si sarebbe più rivisto il giocatore di un tempo, oggi Gigi è un felice padre di famiglia, con un figlio, Nicholas, portiere delle giovanili del Toro. Già, portiere, lui che gli estremi difensori ha sempre provato a sorprenderli. In verità il senso del gol non è mai stato tra i suoi pregi principali: molto meglio correre con eleganza sull’amata fascia destra, e scodellare assist per i compagni. Come quello che servì a Luca Fusi il pallone del 2-0 nella storica semifinale di Coppa Uefa ’92 contro il Real Madrid. Fu quello il Lentini più grande di sempre, fu quello l’acme di una carriera cominciata nel settore giovanile del Toro con l’etichetta del futuro campione. Dopo quella Coppa ecco il passaggio al Milan, che lo contese fino all’ultimo alla Juventus: i tifosi del Toro la presero malissimo, incendiando mezza città. In rossonero Gigi diventerà milionario ed arricchirà la propria bacheca (due scudetti), ma regalerà solo lampi di classe, fino a quell’incidente. Poi Atalanta (con il mentore Mondonico) e il ritorno al Toro, tra luci ed ombre, una promozione ed una retrocessione.
1. Claudio Sala
Secondo alcuni la sua vera sfortuna è stata la carta d’identità, le cui ultime due cifre dell’anno di nascita sono troppo “vicine” a quella di un santone come Franco Causio: solo per questo oggi Sala è ricordato come la terza tra le ali destre italiane della storia recente, dietro il Barone e Bruno Conti, e solo per questo il capitano dello scudetto del Toro ’76 ha collezionato appena 18 presenze in Nazionale, uscendo di scena poco prima dell’avvio dell’epopea-Bearzot. La sua storia in azzurro è simile a quella di quel Torino. Uguali sono i rimpianti per quello che poteva essere, ma non è stato, per quel titolo-bis mancato di un punto nel ’77. Arrivato al Toro nell’estate ’69 dal Napoli, Sala fu una nuova scommessa di Pianelli, cinque anni dopo Meroni: costato quasi mezzo miliardo di lire, in principio nessuno immaginava che sarebbe diventato l’erede della Farfalla. Il suo primo ruolo infatti fu quello del centravanti di manovra, o falso nueve per essere moderni: lì lo impostò Rocco, conquistato dalla sua tecnica e dalla sua visione di gioco. Solo sei anni dopo con Radice, che lo aveva scoperto a Monza, arriva la svolta, col passaggio all’ala destra: saranno dieci stagioni di corse regali, con cross perfetti rigorosamente dalla linea di fondo, per le teste di Pulici e Graziani. Uno schema in apparenza semplice, ma geniale, che durerà fino al 1980, anno del passaggio al Genoa. Tornerà al Toro come allenatore delle giovanili e della prima squadra.
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